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Analisi del carico interno nel calcio giovanile

Carico di allenamento e fatica


di Simone Fugalli*

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Il carico di allenamento negli ultimi decenni è diventato dominante nella teoria e nella pratica dell’allenamento sportivo.
Da un lato, dal punto di vista biologico, ne è stata riconosciuta la funzione per l’adattamento dell’organismo, e quindi per l’aumento della prestazione. Dall’altro, dal punto di vista dell’organizzazione dell’allenamento, viene incontro allo sforzo compiuto dagli allenatori per impostare il processo di allenamento e le sue componenti in modo pianificato, quantificabile e calcolabile.
Le definizioni che dominano nelle opere classiche in linea di principio possono essere classificate in due gruppi. Troviamo, da una parte definizioni che hanno un carattere ad orientamento prevalentemente pedagogico e che sottolineano il carattere generale di richiesta. In Harre (1982) i carichi di allenamento: “….vanno interpretati come azioni pedagogiche dirette ad uno scopo e riferite al compito”. Questa ed altre definizioni caratterizzavano appropriatamente il concetto di carico di allenamento nella sua globalità, però si dimostrano formulazioni molto generali e quindi carenti dal punto di vista della aderenza all’impostazione pratica del carico in allenamento. D’altro canto, un altro gruppo di definizioni, nello sforzo di creare questa aderenza alla realtà dell’allenamento, si fondano prevalentemente sulle conoscenze inerenti ai processi di adattamento nei sistemi funzionali offerte dalla medicina e dalla fisiologia dello sport e quindi forniscono spiegazioni del concetto che hanno un orientamento maggiormente quantitativo. Secondo Matwejew (1981), un antesignano della visione ad indirizzo biologico-quantitativo: “…il concetto di carico di allenamento” fornisce “…in primo luogo la misura quantitativa delle azioni (effetti) d’allenamento”. Ed aggiunge che: “…la grandezza del carico d’allenamento sarebbe una derivazione della sua intensità e del suo volume” (1981). Krùger (1989) e Schnabel (1991) pongono alla base degli adattamenti nei sistemi funzionali informativi (che sono quelli coinvolti nell’allenamento della tecnica e della coordinazione) soprattutto miglioramenti funzionali sul piano dell’elaborazione nervosa centrale e neuromuscolare, evitando la prevaricazione di quest’ultimo sistema sul primo. Questa giusta attenzione è, e deve essere tradizione nella teoria dell’allenamento, la quale è strettamente collegata con la fatica.
Nella fisiologia e nella scienza dello sport, per fatica s’intende, concordemente, una diminuzione reversibile della prestazione o della capacità di prestazione provocata da una attività o da carichi fisici.

Il tanto conosciuto, quanto spesso dimenticato, modello prestativo di gioco, ci ricorda che il calciatore effettua circa 195 sprint della lunghezza compresa tra i 10 ed i 15 metri (Cometti, 1995), correndo per circa il 25% del tempo totale di gioco ad oltre il 120% della propria V.A.M. (velocità aerobica massimale) (Biscotti e coll., 2000). Oltretutto il fatto che il calcio moderno richieda sempre di più azioni veloci ed esplosive, è sottolineato dalla constatazione che il numero degli “scatti brevi” effettuati nel corso dei 90’ di gioco, è andato progressivamente aumentando, dai 70, registrati in studi effettuati nel 1947, siamo arrivati ai 145 del 1970, sino a raggiungere, come già citato, il ragguardevole numero di 195 (Dufour, 1990). Occorre inoltre considerare che il tipo di corsa che il calciatore deve giocoforza adottare, è fatto di un susseguirsi di fasi accelerative e decelerative, cambi di direzione, balzi e espressioni di forza richiesti dalle situazioni di gioco.
E’ intuibile che, al giorno d’oggi, vista la maggiore pretesa di queste attività, peraltro molto dispendiose a livello energetico, anche le sedute allenanti devono essere adeguatamente condizionanti al fine di affrontare al meglio queste attività reiterate, richieste dalle partite odierne.
                                                       

*Corso in Scienza e Tecnica dello Sport
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